Diario Clandestino: quando nel lager ci finiscono gli italiani

Il diario completo, quello nato dall’idea originale, venne bruciato. Doveva essere una cronaca della permanenza nel lager, una descrizione minuziosa di quegli anni d’esilio, con considerazioni e testimonianze sul conflitto e sui prigionieri di guerra che dopo l’armistizio decisero di non collaborare con i nazisti. Una volta tornato in patria Guareschi non lo ritenne degno di essere pubblicato. Cartelle e manoscritto finirono nella stufa, e il libro venne recuperato solo molto più tardi dai figli dello scrittore, con il titolo “Il Grande Diario”. Nome ingannevole, poiché più grande ancora fu l’opera che Guareschi volle invece dare subito alla luce al suo posto. Tra i due libri dedicati alla prigionia dal ’43 al ‘45, è infatti il Diario Clandestino quello più significativo. Molto più snello del “Grande Diario”, condensa in meno di 200 pagine ricordi, racconti, poesie, impressioni, persino sogni. Un flusso di coscienza – meglio, di coscienze – un mosaico di memorie e di storie, che racconta la Storia.

È il piccolo manifesto di una piccola civiltà: quella che crebbe nello squallore dei campi di concentramento. Isole abitate da reietti, nel cuore dell’Europa ma ai margini del mondo, assediate dal filo spinato e oppresse sotto il cielo plumbeo della Polonia e della Germania. È quasi un altro Arcipelago Gulag quello raccontato da Guareschi: costretti nell’infinità della pianura mitteleuropea, sterminata davanti agli occhi dello scrittore padano, i prigionieri internati crearono un microcosmo incomprensibile, improbabile. Lo stesso Guareschi, nell’introduzione, si chiede come potrà reagire alla lettura – che salta dal racconto alla visione, dalla cronaca alla poesia – un pubblico ignaro di quel mondo. Il vecchio “numero 6865” pubblica il libro anche per dovere nei confronti degli ex-compagni. Diario Clandestino è infatti quasi un’opera collettiva. Ogni storia è stata letta dall’autore davanti ai fischi, agli applausi e all’approvazione degli internati del lager.

Storie di fame e di noia. Sono queste le colonne portanti dell’esistenza del prigioniero, gli estremi verso cui oscilla alternativamente il pendolo della sua vita.

Gli uomini del campo parlano di cibo, sognano di cibo, si nutrono del pensiero del cibo rischiando la pazzia. Le giornate sono tutte uguali, e solo l’occhio più attento può catturare i piccoli segni dello spazio che muta, del tempo che avanza. Le patate distribuite per il rancio germogliano, dev’essere primavera.  Il pane tagliato a fette rettangolari, e non più tonde, indica che il convoglio ha trasferito i prigionieri dalla Polonia alla Germania. Le caselle di un calendario si colorano di nero, dunque il tempo esiste. E a fare da sfondo a tutto c’è lo scontro culturale, una lotta tra due pesi massimi. Il Papato contro l’Impero? Quasi: l’italianissima arte dell’arrangiarsi contro la brutale efficienza della macchina militare tedesca. Eppure, nell’oceano grigio del Reich, sotto lo sguardo arcigno di un dio diverso dal nostro, che si chiama “Gott”, i prigionieri crearono la loro miracolosa civiltà, la città democratica. L’unico modo per non trasformarsi in animali abruttiti, in bestie rinchiuse in un recinto, fu quello di praticare l’alchimia più antica dell’universo. Fame e dolore fisico dovevano diventare forza spirituale, e ognuno, in qualche modo, consapevolmente o meno, si donò agli altri. Le baracche divennero aule universitarie, con lezioni di fisica, letteratura, matematica. Nacque un giornale “parlato”, con gli articoli letti a voce alta e commentati in pubblico. I pochi beni materiali, rubati, nascosti o ricevuti nei pacchi da casa alimentarono un mercato primordiale fondato sul baratto. Giravano libri, sigarette, coperte, sacchetti di farina. Qualcuno riuscì a procurarsi una bobina di rame, rubando la dinamo della bici di una guardia tedesca, per costruire una miracolosa radio. Non mancano i rapporti con le nazioni limitrofe: i prigionieri francesi e le loro preziosissime Camel americane, i russi con una tale indolenza da sembrare di aver dimenticato di essere vivi.

Ogni tanto lavorano insieme, il russo, il francese e l’italiano. Ognuno conosce solo la sua lingua, ma tra loro nascono discussioni infinite. Persino la guardia del campo scende dalla torretta e si unisce alla cacofonia poliglotta. L’uomo dalla testa di morto porta loro gli attrezzi per svolgere al meglio l’inutile mansione. È l’efficienza tedesca che non si ferma davanti a niente. E a proposito di tedeschi, il tedesco meno tedesco è proprio il caporale responsabile del campo di concentramento. Un uomo sconfitto, conosciuto tra i prigionieri come Capitan Armistizio: si vede troppo bene che non crede nella vittoria finale del Führer. Il poveretto finisce impiccato da altri tedeschi dopo che i britannici liberano il lager: il Regolamento, la divinità germanica, parla chiaro e stabilisce che Capitan Armistizio non ha difeso con abbastanza ardore il suo campo. Come tutti i grandi imperi, infatti, anche la civiltà del lager deve scomparire. La sua fine è raccontata con ironia e non poca amarezza dal genio di Guareschi. Con il terminare della guerra si torna in Patria, alla democrazia, solo per scoprire la terribile realtà: l’Italia è sempre quella. Roma resta la capitale degli intrighi, i più scaltri hanno cambiato casacca giusto in tempo per la cena. E con il nuovo ordine a stelle e strisce il piatto è ghiotto. La menzogna dei giochi politici della nuova repubblica è troppo evidente agli occhi di chi ha vissuto in un microcosmo dove davvero “uno vale uno”, dove il cognome cede il passo a un numero di matricola, e le stelline sulla casacca da soldato sono comete che cadono nel fango. Per chi torna dall’esilio la vera democrazia era quella dietro al filo spinato. Non per nulla in Italia Guareschi scoprirà di avere più nemici che alleati.

Più determinato che mai, il reazionario di sempre farà a botte con i comunisti, con la Democrazia Cristiana, quel “partito di centro che guarda a sinistra”, e con il clero modernizzante che di lì a poco avrebbe rivoluzionato la Chiesa cattolica desacralizzandola e trasformandola progressivamente nella caricatura di sé stessa. Giornalista, scrittore, vignettista, veterano, veggente, il monarchico Guareschi lotterà con ogni mezzo contro lo sfacelo morale all’orizzonte e la virata sempre più “sinistra” del Paese. Lui, il vincitore della guerra (“ne sono uscito vivo senza odiare nessuno” – è questo il vero trionfo), l’uomo che sconfisse a suon di manifesti immortali il pericolo rosso (“nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”), rischiò grosso per una caricatura che punzecchiava il liberale Einaudi e finì al fresco per una sfortunata inchiesta contro De Gasperi. Roba da poco per chi ha saputo misurarsi con nemici ben più temibili. La vita di Guareschi fu militanza culturale continua, contro il conformismo di comodo della classe politica post-bellica, ma soprattutto contro un certo progresso del quale vide con mezzo secolo di anticipo le nefaste conseguenze. Lo riassume bene una lettera al figlio Albertino, il “postero”:

Evviva quindi la reazione! Sono un reazionario, postero mio diletto, perché mi oppongo al progresso e voglio far rivivere le cose del passato. Ma un reazionario molto relativo, perché il vero bieco reazionario è chi, in nome del progresso e dell’uguaglianza sociale, vuol farci retrocedere fino alla selvaggia era delle caverne e poter così dominare una massa di bruti progrediti ma incivili. Postero mio diletto, quando vedrai sulla terra che coprirà lo chàssis di tuo padre il marmo recante inciso “fu un uomo probo” cancella e scrivi: “Fu un bieco reazionario”. Non lasciare che si calunni la memoria di tuo padre. Quando ti diranno che sei un bieco reazionario come tuo padre, sghignazzerai e io mi sentirò vivo, nella mia libera tomba di onesto defunto

La prigionia nel lager diede a Guareschi la forza spirituale e la lucidità per comprendere meglio di altri in che direzione stavano andando l’Italia, ma non solo: si rafforzò lì anche la profonda fede, dalla quale nacque la sua creazione più acclamata, la ventennale serie dei racconti di Don Camillo, di Peppone, ma soprattutto del Crocefisso che parla, vero protagonista di quel “Mondo Piccolo”. Alle origini delle avventure di Don Camillo c’è l’esperienza di Diario Clandestino. Dice bene il giornalista e studioso Alessandro Gnocchi, grande esperto dell’opera di Guareschi, nell’efficace conferenza dedicata proprio all’autore emiliano: “Non è vero che dentro i campi di concentramento Dio non parlasse. È l’uomo che non lo sente. Ma non c’è bisogno di stare in un lager per non sentire Dio”.

Il riferimento è a certe dichiarazioni da parte di un clero erede di quello che Guareschi aveva combattuto, ma non solo. Impossibile infatti leggere il Diario Clandestino senza confrontarne le pagine con Se questo è un uomo di Primo Levi, ateo convinto fino all’ultimo. La speranza contro la disperazione. Due visioni agli antipodi, la sua e quella di Guareschi, alle quali Gnocchi ne accosta anche una terza, quella del gigante Solzenicyn, cronista dei gulag sovietici. Le esperienze furono simili, le reazioni molto differenti. L’ebreo piange contro un dio lontanissimo, dimenticato, inesistente. L’italiano, in un mondo di macerie, contro tutto e contro tutti, “si arrangia” e non muore mai, nemmeno se lo ammazzano. Il diario di Guareschi testimonia che, anche affamato e in catene, l’italiano resta paradossalmente libero. E magari, nel frattempo, fa quello che gli è sempre riuscito meglio: costruisce una civiltà.