Il Falò delle Vanità mette al rogo il multiculturalismo

Ipocrisia, razzismo, carrierismo da operetta: è il clown world di Tom Wolfe.

Tom Wolfe è famoso per aver coniato il noto epiteto ‘radical chic’. Lo scrittore ci ha lasciati nel 2018, ma sono pronto a scommetterci: ancora qualche anno e avrebbe avuto pure la paternità del meme ‘clown world’.

Scritto in tempi non sospetti (anno Domini 1987, l’AIDS era un flagello divino, l’impero del male aveva capitale a Mosca, e la città di New York non era ancora l’anticamera terrena dell’inferno), Il Falò delle Vanità è una commedia meravigliosa, un circo metropolitano, una tragicomica rappresentazione del mondo liberal occidentale.

Non serve neppure dilungarsi troppo sulla trama: a bordo della sua Mercedes, un affarista di Wall Street mette sotto un giovane afroamericano nel Bronx. La torta è troppo ghiotta: giornalisti alla ricerca dello scoop, capipopolo, procuratori arrivisti, e liberal dal moralismo facile si gettano sul caso come avvoltoi sopra una carcassa putrescente, innescando una bomba mediatica. L’incidente, di per sé banale, diventa uno scandalo politico.

Perchè nel Paese, nella città simbolo dell’individualismo e dell’ego, non esiste il caso individuale. Non esiste il singolo: in America tutto è razza e status. Non lo scrivo in tono polemico, non mi interessa niente del ‘razzismo sistemico’ che fa piangere i progressisti. Lo indico come un semplice fatto, un aspetto del carattere nazionale americano, specialmente evidente nelle città cosmopolite che fanno gran vanto del loro presunto multiculturalismo. In America tutto è status e razza, come in Inghilterra tutto è classe sociale, e in Italia tutto è campanilismo e identità regionale. Razza e status sono i veri elementi caratterizzanti di tutti i personaggi de Il Falò delle Vanità.

Sherman McCoy, il nostro eroe, è un padrone dell’universo: giovane e ricco WASP newyorkese; trader, broker, dealer, e tante altre cose che oggi come allora fanno tanto figo, è potente, talmente potente da non riuscire a spiegare quel che fa tutto il giorno per guadagnarsi la pagnotta alla sua piccola bambina di sette anni, curiosa di poter dire alle amichette che lavoro fa suo papà. Il padrone dell’universo è in realtà un marito infedele, insicuro e incapace di affrontare il mondo fuori dalla sua gabbia dorata in Park Avenue, Manhattan.

Kramer è il procuratore nel Bronx. Un piccolo borghese ebreo, frustrato e pieno di complessi di inferiorità. Istintivamente di sinistra, disprezza o invidia segretamente i suoi colleghi italiani e irlandesi. Uno squattrinato arrivista che, nonostante le belle parole liberali, si accanisce sui ladri di polli del Bronx per far bella figura in tribunale.

Il Reverendo Bacon, nero, è l’archetipo del leader carismatico delle minoranze oppresse. Socialista col portafoglio a destra, potremmo definirlo l’eterno Black-Lives-Matter, tendenzialmente ignorato dai poveracci apolitici del Bronx, e venerato invece dai bianchi che vogliono mettersi in pace la coscienza. Istiga la popolazione nera e ispanica alla rivolta sociale e, ovviamente, non disdegna le donazioni dei filantropi che lo finanziano.

In questo romanzo americano non c’è mai il singolo, ma sempre un binomio etnia/stipendio. Nella “nazione nata dai migranti” la razza e la grana sono ancora l’aspetto numero uno dell’identità personale. Nel moderno paradiso multiculturale il conflitto sociale fa da sfondo anche al più banale degli incidenti. La stessa vicenda giudiziaria del povero Sherman McCoy, agnello sacrificale e capro espiatorio di un’intera città, verrà combattuta a suon di favori e intese tra minoranze e classi sociali.

Quasi quarant’anni fa, quando Il Falò delle Vanità è stato scritto, si poteva ancora ridere di certa ipocrisia. Oggi, semplicemente, il libro non verrebbe pubblicato. Forse Tom Wolfe verrebbe cancellato. La vera vittima della storia è un milionario bianco di Wall Street, i principali antagonisti sono un nero e un ebreo. Manca il personaggio femminile ‘forte’ (tutte le donne sono sostanzialmente delle sciacquette mondane), manca la strizzatina d’occhio alle minoranze oppresse, manca la diseguaglianza economica come radice di tutti i mali.

Tutto troppo scomodo, fastidioso. Insomma, è un libro da leggere alla svelta, prima che a sinistra se ne accorgano.