Jurassic Park, il libro perduto

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Ci sono film che rovinano il libro. E ci sono libri che rovinano il film.

Vidi il primo Jurassic Park di Spielberg in TV. Avrò avuto 7 anni, nel pieno della mia dino-mania, e il film mi stregò. Imparai le scene a memoria. Imparai le battute a memoria. Probabilmente mi feci insegnare le mie prime parolacce da quel genio di Ian Malcolm.

Il film era quasi perfetto. Il piccolo critico nerd che era in me aveva già un appunto: i dinosauri erano troppo pochi. Conoscevo decine di nomi latini di specie pericolosissime, e ora tutto il mio mondo si riduceva essenzialmente a due carnivori - il t-rex e i raptor, i più mainstream, figurarsi.

Insomma, persino un bambino provava la sensazione che fosse tutto troppo semplificato. Una nota dolente microscopica, quasi impercettibile nell’eccitazione per il film.

Ai tempi, dicevo, fu una delusione piccola. Per quella grande avrei dovuto aspettare una ventina d’anni. Per quella avrei dovuto leggere il romanzo del di Michael Crichton, del 1990, che fa sembrare il film poco più di un cartone animato tremendamente realistico.

Si capisce che il target del grande schermo era appunto quello: il bambino fissato con i dinosauri, ben contento di vedere un tirannosauro digitalizzato, con un lieto fine da film Disney.

Decisamente una demografia diversa da quella che avrebbe invece apprezzato l’opera originale, un romanzo che unisce a una trama molto più splatter, quasi da horror, interessanti parentesi filosofiche e pesanti schiaffoni al mondo dell’accademia e della scienza.

Roba poco digeribile per il grande schermo, chiaro. E quindi giù di sforbiciate e distorsioni: i bambini, i nipotini del magnate e padrone del Jurassic Park John Hammond, sono decisamente, esageratamente, troppo presenti. Rivedendo il film da adulto mi rendo conto che sono persino fastidiosi: due mocciosi urlanti, palesemente fuori contesto.

Ma nel libro il piccolo Tim è un genietto, un ragazzino sveglio la cui abilità si rivelerà fondamentale.

Ellie Sattler, collega del paleontologo Alan Grant, è invece sostanzialmente una studentessa, non la personificazione del solito, banalissimo cliché hollywoodiano della donna forte e risoluta (spoiler: le battutine femministe sono un aggiunta di Spielberg, nel libro non ci sono).

Il personaggio più visibilmente stravolto è però John Hammond, una sorta di nonno eccentrico, benevolo e comprensivo. Nulla di più distante dall’Hammond di Crichton, l’essenza dell’imprenditore senza scrupoli, accecato dal suo stesso potere e, fino alla fine, incapace di rimorso.

Sono proprio gli scontri tra questo inconsapevole Dottor Faust e Ian Malcolm, il matematico del gruppo, l’esperto della Teoria del Caos, a dare spessore al libro.

Qualche pillola rossa:

Quello che interessa veramente agli scienziati sono i risultati. E si concentrano sul problema se possono o meno ottenere qualcosa. Non si fermano mai a chiedersi se dovrebbero fare qualcosa. Opportunamente definiscono tali considerazioni superflue. Se non fossero loro a farlo sarebbe qualcun altro. La scoperta, credono, è inevitabile. Così cercano semplicemente di essere loro a farla. Ecco il gioco della scienza. […] Non possono limitarsi a osservare. Non possono limitarsi ad apprezzare. Non riescono ad adattarsi semplicemente all’ordine naturale. Devono far accadere qualcosa di innaturale. Questo è il lavoro degli scienziati e adesso abbiamo società intere che cercano di essere scientifiche.

Voglio che la gente si svegli. Abbiamo avuto quattrocento anni di scienza e ormai dovremmo sapere a cosa serve e a cosa non serve. È ora di cambiare.

Prima che distruggiamo il pianeta?”, chiese lei.

Sospirò e chiuse gli occhi. “Santo cielo”, disse, “di questo non mi preoccuperei affatto”.

Il potere scientifico è come una ricchezza ereditata: ottenuta senza disciplina. Leggi cosa hanno fatto gli altri, compi il passo successivo. Lo puoi fare quando sei ancora molto giovane. Puoi progredire velocemente. Senza bisogno d una disciplina che duri decenni. Non ci sono maestri: gli scienziati vecchi vengono ignorati. Non c’è alcuna umiltà nei confronti della natura. C’è solo la filosofia del divanta-ricco-presto, del fatti-un-nome. Imbroglia, menti, falsifica: non ha importanza. Non per te, o per i tuoi colleghi. Nessuno ti criticherà. Nessuno ha standard etici. Stanno tutti cercando di fare la stessa cosa: fare qualcosa di grande, e farlo presto.

Di fondo, Ian Malcolm crede nella Teoria del Caso. Banalizzo e semplifico ai limiti della legalità: l’uomo positivista, illuminista, si illude di poter controllare sistemi complessi, credendo - conoscendone le regole - di poter prevedere l’evoluzione del sistema stesso.

Un’illusione, appunto: il sistema può collassare senza preavviso, può evolvere in direzioni sconosciute. “Una farfalla batte le ali in Brasile, e un tornado attraversa il Texas”.

La teoria del caos essenzialmente roba vecchia di secoli, millenni, rispolverata e riverniciata con un po’ di linguaggio scientifico e accademico. È il duro ritorno alla realtà, dopo una sbornia durata troppo a lungo. Dopotutto Chaos era la vera unica divinità dei Greci, e anche il Cristianesimo presuppone che, in fin dei conti, la realtà dipenda da Dio, da Qualcosa di esterno al creato, e di incontrollabile dall’uomo.

Una volta eliminata dal tavolo la menzogna scientista, restano appunto queste due opzioni: il caos o Dio.

Sono entrambe teoricamente valide. Sono entrambe impossibili da dimostrare con criteri empirici. Sono entrambe posizioni che, in ultima analisi, si accettano per fede.

Purtroppo penso che Michael Crichton, e Ian Malcolm, propendessero per la prima.