Goffredo di Charny, apologo della Cavalleria

Il Libro della Cavalleria è un manuale per eroi antichi e moderni
Norimberga della Storia. Siamo alla resa dei conti, e dieci secoli reclamano verità e vendetta. Capo d’accusa: mistificazione, menzogna del massimo grado.
La civiltà che diede la nascita a università, ospedali, parlamenti, è oggi sinonimo di ignoranza, miseria, dispotismo. Il Medioevo è l’unico periodo storico che non ammette ignavia. Se si vuole essere accolti nello schieramento dei buoni è necessario temerne un fantomatico ritorno, deriderne i personaggi. È necessario odiarlo.
Certo, sarebbe interessante sapere quanti moderni, nel silenzio di un monolocale metropolitano o chiusi in un comodo ufficio, sognino in segreto avventure all’ombra di un castello, pellegrinaggi ai confini del mondo, l’epica lotta quotidiana contro le forze della natura.
Tranquilli, non lo scopriremo mai: sono pensieri peccaminosi, inconfessabili. Si rischia di esser presi per revisionisti, peggio ancora, nostalgici. Terroristi che vogliono riportare indietro le lancette e sabotare gli ingranaggi del progresso.
Al banco degli imputati c’è certamente l’illuminismo settecentesco, calunniatore e colpevole numero uno della ‘leggenda nera’. Voltaire, Gibbon e compagnia hanno fatto più danni delle cavallette. Ma oggi che l’accademia e la ricerca seria hanno smentito i vecchi pregiudizi, i propagandisti agiscono nel mondo della cultura pop. Leggere per credere.
George R. R. Martin sembra sinceramente convinto di riparare un torto alla Storia con la sua celebre saga, fantastica, sì, ma a suo dire ispirata al medioevo europeo più crudo.
E da bravi marxisti, se si vuole portare in vita il Medioevo reale ci si deve liberare delle sovrastrutture. Dunque via la Fede e la Cavalleria. Via l’epica, la morale, i riti, i simboli. Al rogo bestiari e santi. E la politica, l’arte del governo? Nel medioevo di Martin il manuale di riferimento non è più il biblico Libro dei Re, ma il Principe di Machiavelli, già un testo rinascimentale.
Lo scrittore americano non è l’unico ad aver dato in pasto alle masse una fantastica età buia spacciata per semi-reale. Ken Follett, romanziere britannico, guarda caso di idee ultra liberali, fa più o meno lo stesso: a Kingsbridge, priorato inglese in cui sono ambientati i quattro libri dell’omonima saga, le reliquie mariane sono falsi artefatti per raggranellare donazioni tra la plebe, i conventi nascondono pericolose cellule di monache protofemministe, i cavalieri sono stalker vestiti di latta, insaziabili bulletti altolocati a caccia di pulzelle e bottino.
Anche la tivù non scherza. Vi spoilero Vikings, in breve: pagani nordici sbarcano sulle coste della Britannia e in Francia per scoprire nell’Europa cristiana una patetica massa di contadini imbecilli e monaci imbelli, monarchi voltagabbana e vassalli degenerati. Difficile non rileggerci una sorta di mito del ‘buon selvaggio’.
In ogni caso l’idea di base è sempre quella di servire allo spettatore maturo uno sfondo storico che possa apparirgli come più ‘reale’, privo di tutta quell’impalcatura morale dal sapore fiabesco, ingenuo e ridicolo.
Convinto di dare profondità e serietà alla sua opera, lo scrittore moderno crea un contesto di miseria disillusa e violenza assoluta. Il risultato vende, forse è pure credibile, ma non è il Medioevo.
È chiaro, non tutti i frati furono San Francesco, non tutti i monaci furono San Bernardo. È chiaro, il passaggio dal predone barbaro al templare immacolato non fu immediato, e a volte non ci fu affatto. Eppure Luigi IX, Goffredo di Buglione e Alfredo il Grande ricordano Aragorn, non Robert Baratheon.
Paradossalmente, più si cerca di spogliare la storia dei suoi aspetti fantastici, mitici, più la si allontana dalla realtà. Non è una contraddizione, basta andare alle fonti. Prendete il “Libro della Cavalleria” di Goffredo di Charny. Scritto da un cavaliere francese che incontrò morte e gloria portando il vessillo dell’Orifiamma a Poitiers, lo si può trovare online, tradotto da Giovanni Amatuccio.
La prosa è quella di un uomo d’armi del quattordicesimo secolo. Tra lodi al Signore e preghiere alla Vergine, un guerriero abituato a guidare assalti e a governare assedi ci spiega gli aspetti che segnano la vita del vero cavaliere.
Si inizia con una descrizione della ‘buona gente d’arme’: chi va in battaglia per il signore, chi cerca imprese in terre lontane, persino chi combatte valorosamente senza però mai trovare la fama. Più che un mestiere, quella delle armi è una vocazione, una professione totalitaria. Come un monaco, milite spirituale, il cavaliere deve allineare ogni aspetto della sua vita con il volere divino: la cerimonia dell’investitura, la cura del proprio corpo, persino i passatempi e il tempo libero. Importantissimi, ovviamente, il matrimonio e il rapporto con la dama, quasi una generalessa che incita a battersi in imprese sempre più onorevoli.
Si trattano anche questioni puramente materiali, di pancia, come la meritata spartizione del bottino. L’autore, ad esempio, frena i bollenti spiriti dei giovani cadetti mettendoli in guardia: “è ben da evitare il bottino che fa perdere onore, vita e averi. E perciò bisogna mettere in questo mestiere più il cuore e l’aspirazione all’onore, il quale dura per sempre, che il profitto e la brama di bottino”.
Sfogliando le pagine si fatica a tenere a mente come il tema del libro sia sostanzialmente una delle più detestabili attività umane. Goffredo di Charny spiega la guerra con l’entusiasmo di un bambino che vuole insegnarci le regole del suo gioco preferito. E non c’è la minima traccia della vanità che sempre contraddistingue il cavaliere ‘pop’, stereotipato da romanzi e serie tivu.
Il veterano invita il lettore all’umiltà, a considerare il proprio valore come un dono di Dio. Altro punto, questo, che stona con l’immagine che tanti hanno della religione – mera facciata, velo ipocrita per nascondere il massacro.
Non è così: il guerriero medievale ideale prende sul serio il peccato, la santità, il destino dell’anima; concetti pratici come una ricetta casalinga quando si vive a stretto contatto con la morte. Semplicemente per il cavaliere non c’è contraddizione tra l’inchinarsi davanti al Crocefisso e l’inchiodare il nemico con la lancia. Come ogni aspetto della società, anche il mestiere delle armi deve essere armonizzato nel disegno di Dio:
“Quando Dio dona loro [i cavalieri] grazia di trovare e assistere a sì alti avvenimenti quali le battaglie, attraverso i quali ottengono la grande occasione di compiere le loro gesta, devono ringraziare Nostro Signore e servirlo per il bene che ha concesso consentendo loro di continuare nel mestiere delle armi”.
Non abbiamo scampo. L’unico modo di uscirne vivi è quello di convincerci che l’ideale cavalleresco fosse, per l’appunto, solo un ideale inapplicato. D’altronde, e questo è certo, dopo aver raggiunto il suo apice la cavalleria passò dall’essere un ordine quasi religioso a una classe sociale chiusa, privilegiata e mondana.
Ma l’esistenza stessa dell’etica cavalleresca dimostra che il cuore del Medioevo non stava nell’opulenza o nella tecnologia. C’era qualcosa di immateriale che continua a sfuggire ai calcoli di chi è troppo impegnato a studiare la quantità di calorie medie della dieta del servo della gleba, l’aspettativa di vita dei contadini, la condizione della donna.
Qualcosa di spirituale, di mistico, che dava a quei secoli una forza vitale incredibile, quasi offensiva per noi moderni.
Certi fatti non si possono ignorare, né considerare incidenti della storia. Migliaia di uomini presero le armi per riconquistare il Santo Sepolcro, mentre pochi anni fa la paura di una multa non ci faceva uscire di casa.
Gli studenti sfidavano mille pericoli viaggiando tra le università del Continente, noi frigniamo se la Brexit rende l’erasmus in Regno Unito un po’ più difficile.
L’architettura postmoderna è un’offesa alla bellezza, i ponti crollano crollano, ma le cattedrali – preghiere di pietra, opere pubbliche improduttive e inefficienti – sono ancora lì, decorate minuziosamente persino nelle loro parti dove gli uomini non possono vedere (ma Dio sì).
E allora forse hanno davvero ragione i Martin e i Follett: questa roba qui non la puoi vendere. Il medioevo vero, quello della Fede e della cavalleria, della certezza nella giustizia divina, non è adatto ai romanzi. In effetti pretendere che il lettore moderno ci creda sarebbe davvero troppo.