Pan: la Creazione di Dio contro civiltà degli uomini

Pan è l’epico, eterno incontro-scontro tra natura e civiltà. Il capolavoro surreale di Knut Hamsun.
E’ il 1984 e gli esseri umani sono in pieno delirio di onnipotenza. Costruiscono ferrovie, piantano pali telegrafici, accorciano le distanze, rimpiccioliscono il mondo. Inventano nuove utopie, si lasciano sedurre dai miracoli della medicina, dalle magie della scienza. Si innamorano del progresso, contano i petali delle margherite pensando ai diritti umani e alla liberal-democrazia.
L’ottocento è il secolo delle grandi rivoluzioni – umane, scientifiche, industriali. Ma le conquiste della tecnica inaridiscono il cuore dell’uomo. Ed è proprio in questo deserto spirituale che germoglia uno degli scrittori più antimoderni, influenti e, forse, controversi di sempre.
È il 1894 e Knut Hamsun pubblica Pan, romanzo breve, in prima persona, che narra la vicenda del Tenente Glahn, un uomo che “appartiene al bosco e alla solitudine”.
Hamsun, questo bizzarro norvegese che ha viaggiato nell’Europa della Belle Epoque e che ha conosciuto la frenesia dei ruggenti Stati Uniti, volta le spalle alla modernità e ci porta da tutt’altra parte. E lo fa con un opera assolutamente immortale.
Ciò che colpisce, di Pan, paradossalmente, è la prosa incredibilmente moderna. L’antieroe Glahn, illuso e rigettato dalla società borghese, ricorda in parte il protagonista delle Notti Bianche, e allo stesso tempo precede l’irruente vitalità di Arturo Bandini e Chinaski, gli alter-ego di John Fante e Bukowski, entrambi autori peraltro notoriamente influenzati da Hamsun.
La narrazione si avvicina più all’epica e alla poesia che al romanzo. Il ritmo della scrittura è lento, l’atmosfera lungo tutto il libro limpida, eterea come il riflesso di una scogliera rocciosa sull’acqua di un fiordo.
Glahn vive di caccia e pesca. Abita in una capanna ai margini della foresta, vicino a un piccolo villaggio costiero del Nordland, provincia settentrionale della Norvegia. Isolato dal mondo degli uomini, il tenente non è mai solo. Parla con le rocce, caccia in compagnia del cane Esopo, si ferma a contemplare le foglie, ascolta i racconti del vento, si commuove alla luce di un falò.
È una creatura della foresta, che perde la testa per una graziosa ragazza che viene dal mondo degli umani, dal villaggio. Edvarda e Glahn si scoprono, si conoscono, forse si amano, senza mai capirsi davvero.
Lei organizza feste e gite con gli amici, è mondana, appartiene alla civiltà. Lui, fuori dal suo universo silvano, è schivo, impacciato. Un animale che recita, che prova a fare l'umano.
L’amore impossibile tra due creature incapaci di comprendersi degenera in una tempesta di passioni autodistruttive e visioni, fino a un tragico epilogo, raccontato, stavolta, da un testimone particolare.
Come tutti i capolavori, il romanzo ha diversi livelli di lettura e comprensione. C’è la vicenda umana e sentimentale di Glahn e Edvarda, ovviamente, ma c’è anche tantissima simbologia. La storia è scandita dal cambio delle stagioni: l’amore sboccia in primavera, fiorisce d’estate, va a morire con l’arrivo dell’autunno.
Anche i personaggi secondari potrebbero avere un doppio significato. Il barone, che conquisterà Edvarda, il dottore, cinico e saputello, il violento fabbro, sembrano essere le personificazioni di ricchezza, scienza e tecnica.
E che dire dal cane Esopo, dei due amanti della foresta, quasi degli elfi forse generati dalla fantasia del cacciatore? Che dire della potenza della fine del protagonista, vero e proprio simbolo della reale natura di Glahn?
Pan è un romanzo epico, fiabesco, violento, una storica che mostra come quelli di Glahn e Edvarda siano due mondi incompatibili: la creazione di Dio, corrotta dal peccato originale, e la civiltà degli uomini, in balia delle passioni e dei vizi.
Un incontro-scontro irrisolvibile, che trascende epoche e generazioni. Per questo è un classico immortale.